Da quando dilaga la pandemia le informazioni contenute nelle pubblicazioni scientifiche sono diventate quasi di pubblico dominio: sicuramente è un bene, per quanto ciò non sia esente da effetti collaterali sulla correttezza dell’informazione. È recente, di qualche ora fa per intenderci, la notizia data da Il messaggero che afferma:
Variante Mu è «altamente resistente agli anticorpi del vaccino e dei guariti», lo studio (in preprint) dal Giappone.
Messa così è abbastanza significativa e potrebbe, in teoria, ingenerare equivoci, proprio perchè non tutti sanno cosa sia uno studio in preprint e quanto differisca da uno peer reviewed. Fa una certa differenza, anche se è messo tra parentesi, che lo studio sia in preprint (e lo aveva spiegato in tempi non sospetti Tom Sheldon su Nature, ad esempio: chiaro, possono permettere ad altri ricercatori di dare le giuste priorità e rendere le scoperte più velocemente accessibili liberandomi, nel contempo, dalle morse di riviste spesso pigre e tiranniche – ma al tempo stesso i preprint su argomenti come questi (cita poco prima anche i vaccini, ndt – l’articolo è del 2018, tempi diciamo non sospetti) potrebbero, se una storia diventa “virale” (intende sul web, ndt) finire per fuorviare milioni di persone, che questa fosse o meno l’intenzione degli autori.
Gli articoli in preprint sono detti anche Eprint, e si tratta di articoli non ancora sottoposti a peer review (che è il processo scientifico usualmente utilizzato per validarne il contenuto). Prima di allora, il significato di un articolo del genere potrebbe essere vero come falso, c’è una certa indeterminazione nella sua veridicità e sembra che, per inciso, conti solo dare la notizia (non verificata, come abbiamo spiegato) prima degli altri. Era corretto, ma forse la difficoltà di molti e la capacità del nuovo millennio potrebbe e dovrebbe essere quella di rimettere in discussione periodicamente le proprie idee. Cosa che quasi nessuno, a giudicare dall’atteggiamento narcisista che dilaga in media sui social, nessuno o quasi sembrerebbe disposto a fare.
In genere gli articoli in preprint sono chiaramente etichettati come tali, come ricorda giustamente medicioggi.it che aggiunge, a riguardo, un inciso che ribadisce quanto scrivevamo qui sopra: in questi casi l’ipotesi di cui si discute potrebbe essere confermata o bocciata.
Chiaro, in alcuni casi questi studi possono essere confermati come avvenuto, ad esempio, nel caso dello studio sugli effetti dell’aria condizionata sulla diffusione del virus, il che è stato confermato in seguito ma fin dall’inizio, l’anno scorso, venne “dato per buono” (e portò al distanziamento tra i tavoli dei locali).
La cosa interessante è che, tra l’altro, la validazione in peer review potrebbe avvenire anche tra molti mesi o addirittura anni, proprio perchè c’è da sempre (e da prima del Covid-19) una sovraproduzione di articoli da verificare e spesso non si fa in tempo a farlo. Nel frattempo pero’ il bias cognitivo è già emerso: molti lettori di queste notizie (che non conoscono il gergo scientifico, e non è certo una colpa) crederanno che si tratti di una informazione verificata, ignorando che si tratta (come spiegato solo all’interno dell’articolo, per la cronaca) di uno studio che deve essere ancora validato e che se non lo fosse sarebbe, in sostanza, non veritiero.
Ed è ancora più importante, a questo punto, sottolineare che anche gli studi in peer review possono sbagliare: nessuno ha la Verità in mano, tant’è che molti studi vengono ritrattati in caso di errori grossolani e, di fatto, non si tratta di una contrapposizione tra “verità” monolitiche e inossidabili, come dicevamo quando abbiamo parlato dello scontro sterile tra complottisti e debunker., ma – molto più finemente, se vogliamo – di provare a capire realmente come stiano le cose al mondo. Non è attribuendo certezza a studi in preprint (strizzando anche involontariamente l’occhio alla platea di “scettici” che sembra non aspettare altro, a momenti, per crogiolarsi nella negatività) o, al contrario, barricandosi dietro una scienza che non sbaglia mai (cosa falsa, come insegna la storia) che risolveremo i nostri problemi o torneremo alla sospirata normalità pre-2020.
Vale la pena di ribadire, a questo punto, come funziona la peer review: si tratta del processo di validazione di un lavoro da parte di esperti di un determinato ambito, come ad esempio la virologia, che si occupano di effettuare usualmente ricerche nel settore. Si tratta di un chiaro meccanismo di auto-regolazione dell’informazione per mantenere qualità elevata, migliorare le performance della ricerca, evitare che il bias di pubblicazione o l’effetto aspettativa influenzino falsamente l’esito della ricerca stessa (un ricercatore che sia pregiudizialmente convinto di un qualcosa potrebbe voler, semplicemente, cercare una conferma anche se le prove sono deboli).
L’intero meccanismo del peer review è categorizzato per ambiti scientifici, può essere usato anche in ambito scolastico ed è anonimizzato, per evitare l’insorgenza di condizionamenti di autorità (ovvero, dare ragione ad un ricercatore solo perchè è un nome importante, ad esempio). Tra qualche anno sono abbastanza sicuro che, ripensando a questo periodo difficile, molti trarranno le conclusioni che avremmo dovuto essere più cauti anche nel dare le notizie; e forse, a quel punto, sarà un momento in cui la frenesia cannibalizzante delle informazioni attuali troverà un minimo di freno.
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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