Guida pratica al “politicamente corretto”

Sul politicamente corretto non ci dovrebbe nemmeno essere nulla di che discutere, alla fine: è un sentimento, un mood che proviamo ad imporci per evitare di leggere, scrivere e commentare sui social in modo troppo marcato o, peggio ancora, potenzialmente offensivo. Politically correct in effetti nasce come rimedio pratic a situazioni che potrebbero, nei fatti, essere potenzialmente intollerabili, fomentando odio, razzismo, discriminazione e via dicendo. Di fatto, dovrebbe calmare gli animi di per sè, ma in molti casi la “pancia” dei social e del vituperato popolo del web finisce per fare solo danni, e per essere criticato da suoi convintissimi detrattori come buonismo.

È interessante notare, in prima istanza, che secondo una autorevole ricerca pubblicata sulla rivista online Wiley, il politicamente corretto non è scontato che nasca semanticamente dal linguaggio della sinistra, perchè la sua derivazione potrebbe di fatto essere meno prevedibile. Se è vero che si trovano prime testimonianze all’interno delle cronache dei giornali di sinistra USA (sinistra o presunta tale, diciamo), col tempo è un’espressione usata anche in modo abbastanza brutale: nazismo e stalinismo, ad esempio, potrebbero averne fatto uso per indicare opinioni allineate con il regime, quindi con un’accezione tutt’altro che positiva. Dal punto di vista dei detrattori del politically correct, di fatto, che sono spesso di destra (anche se a volte sono anarchici o qualunquisti), il politicamente corretto rischia di conformare le opinioni avverse al pensare comune, ma questo il più delle volte è un semplice argomento fantoccio, in cui si estremizza la realtà delle cose anche allo scopo di manipolarne il reale sentimento che si trova alla base.

Secondo la neutra Treccani, per inciso, politicamente corretto implica un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone.

Poi comunque è chiaro che il linguaggio cambia: oggi chi vive di welfare rischia di sembrare un mantenuto dallo Stato, ieri la connotazione era positiva perchè la cosa indicava un governo vicino alle persone bisognose. È il caso, ad esempio, del reddito di cittadinanza, che nessuno – soprattutto oggi, con la crisi Covid-19 ancora sul groppone – oserebbe dire che chi lo percepisce sia un mantenuto dallo stato, senza ovviamente rischiare di scatenare risse sui social (per non dire altrove).

In Italia, il politicamente corretto nel nostro Paese è intervenuto a ridefinire le parole, spesso in maniera puramente di facciata (per non dire ipocrita): non diciamo bidello, diciamo “operatore scolastico”. Non diciamo spazzino, per carità: chiamiamolo operatore ecologico. Se uno è povero dobbiamo dire “a basso reddito” (anche se quelli che sono a basso reddito, semplicemente, a volte sono solo evasori fiscali), guai insomma ad usare le parole sbagliate. Se si parla di persone con handicap o minorati, ci si perde spesso in questioni di lana caprina chiamandoli convulsamente, a seconda dei casi, handicappati, portati di handicap, diversamente abili o disabili.

In fondo quello che conta dovrebbe essere la sostanza, non la forma: una società anche scortese, rude nei modi ma giusta per tutti sarebbe di fatto corretta politicamente. Magari a volte si sbaglia a farne una questione di buona educazione, quando in realtà questa è solo una parte del problema, e forse non  è nemmeno indispensabile.

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Di leultime.info

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