Perché l’amore fa soffrire (for dummies)

Io, tu, le cose che non sai di me, quante cose che non puoi sapere, soprattutto perché ci conosciamo a malapena e non parliamo. Quanto si può ancora scrivere, oggi, in modo sensato, sull’amore e la sofferenza che spesso è in grado di provocare?

Le delusioni d’amore le abbiamo tutti, inutile nascondersi, e spesso hanno un effetto sgradevole ed invalidante sulle attività che facciamo ogni giorno. Non c’è dubbio che il problema del perché l’amore abbia spesso questo effetto sconfortante è notevole, e non sarà certo questo articolo a risolverlo. Ma nel libro della sociologa Eva Illouz “Perchè l’amore fa soffrire” viene espressa anche una statistica: 9 volte su 10, in media, qualsiasi approccio di “tentato amore”, flirt e così via ha un effetto negativo e provoca un rifiuto spesso, per noi, inspiegabile. La studiosa in quel libro prova ad indagare sulle dinamiche dell’amore e delle relazioni nei tempi moderni: lo fa con il piglio “battagliero”, se vogliamo, del femminismo e contro la tendenza auto-lesionista di alcuni soggetti femminili.

Ma indaga anche su un altro aspetto molto interessante, che è legato a come le dinamiche amorose tendano a posizionarsi nel contesto delle relazioni sociali. Sì, è vero che le pene d’amore sono universali e sono sempre esistite, e moltissime opere letterarie ce lo suggeriscono: ma quello che è cambiata è la percezione ed il valore che si da’ all’essere single o meno. Il contesto è tutto: e la prova più evidente è il fatto che le relazioni che cerchiamo spesso sono difficili da canalizzare e definire. Quante volte abbiamo saputo rispondere alla domanda di qualche amico “ma tu precisamente cosa stai cercando?“, con il quale cercavamo conforto dopo una batosta amorosa? Poche volte, o nessuna: risposte confuse, patetiche, spesso contraddittorie.

Una condizione che ad oggi è legata ad esempio alla figura degli incel, i “celibi involontari” formalizzati su Reddit e resi celebri dal film di grande successo Joker: tutti coloro che lamentano una sofferenza insita nel non riuscire a trovare nè un rapporto occasionale nè tantomeno la sempiterna “persona giusta”. La Illouz colloca questo dolore, che in altri tempi sarebbe stato vissuto diversamente, all’interno di una condizione tipica dell’uomo e della donna contemporanei: se l’imperativo moderno, infatti, è legato a meccanismi di auto-affermazione, di status di coppia legato ad un vero e proprio status symbol, ad un narcisismo congenito in molti di noi ed all’eterna fobia da impegno (per cui qualsiasi relazione viene scansata a prescindere, proprio perchè si teme di perdersi qualcosa per strada, nel farlo), l’autrice suggerisce mediante il suo controverso libro che una strada alternativa, forse, possiamo costruirla a partire da noi stessi. Vivendo in modo diverso le relazioni e, quando non le abbiamo, imparando a comprendere i reali motivi dietro la nostra condizione senza condannarci all’autolesionismo eterno e senza imporci scelte forzate – e ancora più dolorosamente inutili.

Partiamo da uno scenario che per molti dovrebbe essere familiare, per capire meglio il discorso in ambito sociologico. Nell’immaginario collettivo l’amore per interesse – legato ad esempio alla convenienza economica nell’avere una relazione, di qualsiasi livello essa sia, con una persona più ricca di noi – è visto come un concetto generalmente spregevole, cinico ed arrivista: eppure fino a fine Ottocento era una pratica quantomeno ben codificata, socialmente accettata anche dalle donne. Ed aveva anche un ulteriore vantaggio, se vogliamo: era una pratica ben definita, stabilita limiti precisi in cui potersi muovere ed evitava che un rifiuto, ad esempio (il due di picche che abbiamo assaggiato un po’ tutti, dai 14 anni in poi) diventasse motivo di depressione, dubbi su di sè e precarità dell’individuo. Oggi, invece, i criteri con cui si sceglie un partner sono dettati non tanto dal vissuto freudiano (quello secondo cui cerchiamo l’amore che ci hanno dato i nostri genitori, ad esempio, e eche l’autrice tende a minimizzare, e considera in larga parte sopravvalutato), quanto su un contesto generale che tende a renderci utilitaristi, rigidi e (probabilmente) subdolamente inaccettabili come partner da chiunque altro. È questa, forse, la vera autocritica che ogni single in sofferenza dovrebbe fare nel modo più lucido possibile.

Forse l’idea utilitarista che i single dovrebbero affrontare una volta per tutte, a questo punto, è legata proprio a questo atteggiamento negativo di continua mancanza, di “bisogno” di una relazione probabilmente ereditato da dinamiche familiari (l’amore dei nostri parenti, ad esempio, in cui siamo nati e continuiamo a vivere per molti anni). Questo ci fa sembrare tesi e, alla lunga, realizza una sorta di profezia che si auto-avvera: continuiamo a muoversi tra mille flirt inconcludenti, inutili e frustranti, senza renderci conto che l’errore è proprio alla base, nel “voler forzare la mano”. Ovvio che poi senza iniziativa e volontà personale quasi nulla possa succedere: ma la condizione di single andrebbe una volta per tutte accettata e presa di buon grado, e non combattuta come un drago da mille teste. Potremmo così ritrovarci a 90 anni ancora soli, senza un compagno o una compagna, e questo senza dubbio spaventa: ma al tempo stesso ci garantisce di poterci dedicare a quello che più amiamo senza rimpianti nè condizionamenti inutili e invalidanti.

E forse, coi tempi che corrono, non è detto che sia una cosa così cattiva.

(N.B. questo articolo parte da un libro noto, ma ne propone una “lettura” personale che non è per forza coerente con quella della Illouz, preso insomma come semplice spunto. Meglio specificarlo, nda)

Di leultime.info

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