Storie di mare: torna a casa dopo quattro anni passati in solitaria su una nave.

Foto di <a href="https://pixabay.com/it/users/ptdh-275507/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=550660">Dirk Hoenes</a> da <a href="https://pixabay.com/it/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=550660">Pixabay</a>

Che quello del marinaio non sia un mestiere facile è noto da secoli, così come sono numerose le testimonianze di Odissee più o meno romanzesche verificatesi a bordo di navi e barche in navigazione tra mari, fiumi, laghi e oceani di tutto il mondo. Ma quanto accaduto allo sfortunato primo ufficiale siriano Mohammed Aisha ha dell’incredibile e pone mille interrogativi.

Nessun membro dell’equipaggio di una nave mercantile che fa dei trasporti intercontinentali il suo business pretende di essere a casa per cena ogni sera, nè spera nel fatto che il viaggio per il quale si è appena imbarcato duri meno di qualche settimana: questo tipo di attività fa dei lunghi tempi di navigazione una delle sue caratteristiche imprescindibili e chi si imbarca per vivere deve accettare di buon grado questa regola, altrimenti è meglio che trovi un altro modo per sbarcare il lunario. Ma  l’Odissea che ha dovuto subire il primo ufficiale siriano Mohammed Aisha – raccontata dallo stesso alla BBC e ripresa da tutti i media internazionali – è più degna di un ipotetico racconto di un futuro astronauta in viaggio verso Marte che delle storie di un marinaio.

Tutto ha inizio nell’estate del 2017 quando la nave MV Aman, su cui Aisha era imbarcato, viene bloccata dalle autorità egiziane in un piccolo porto nei pressi del Canale di Suez impedendole di ripartire a causa dell’assenza delle necessarie garanzie di sicurezza del natante. Da quel momento le cose per il povero ufficiale iniziano a prendere i contorni di un romanzo kafkiano. Il legittimo capitano della nave, infatti, sceso a terra per cercare di risolvere la situazione con le autorità egiziane, quando capisce che il fermo dell’imbarcazione avrebbe potrebbe avere una tempistica lunga e indeterminata – a causa delle effettive carenze documentali della nave e dell’indisponibilità economica dell’armatore libanese e dei proprietari del Bahrein di risolvere la vicenda -, evita di risalire a bordo della nave e indica il suo primo ufficiale – Mohammed Aisha, appunto – responsabile della stessa, facendogli firmare documenti di cui, probabilmente, l’ingenuo marinaio siriano ignora le vere conseguenze che non tarderanno a manifestersi di lì a breve.

Nei mesi successivi, mentre le autorità egiziane gli proibiscono di rimettere piede a terra in virtù di un’ordinanza del tribunale controfirmata dal primo ufficiale stesso, uno alla volta, gli altri membri dell’equipaggio, svincolati da responsabilità, riescono a tornare a casa, lasciando il povero Aisha da solo a bordo di una nave che, in assenza di equipaggio, manutenzione e rifornimenti, si deteriora rapidamente,  facendo ritrovare l’unico ospite rimasto a bordo del mercantile senza acqua, elettricità, servizi igienici, viveri e con la sola compagnia di ratti e insetti.

La situazione, sempre più drammatica e grottesca, va ulteriormente peggiorando quando, nel marzo del 2020, a seguito di una tempesta, la nave rompe gli ormeggi e va alla deriva per una decina di chilometri, fino ad arenarsi al largo della città di Adabiya.

Foto di David Mark da Pixabay

In realtà, quello che poteva sembrare l’ennesimo colpo di sfortuna patito dal marinaio siriano, si rivelò essere un insperato dono del destino. Infatti, la nave, arenando a poche decine di metri dalla costa, diede al naufrago la possibilità di nuotare fino a terra (almeno in orari in cui era improbabile il passaggio di forze dell’ordine egiziane nei paraggi), in modo tale da poter effetttuare a riva almeno gli acquisti di prima necessità per poi risalire a bordo.

La situazione si protasse immutata per mesi – durante i quali lo sventurato ufficiale riesce ad ottenere solo di essere visitato a bordo da un medico che ne constaterà il grave stato di denutrizione e disagio mentale dovuti alla scarsa alimentazione e all’isolamento -, fino a quando l’International Transport Workers Federation – una sorta di associazione dei sindacati dei marinai mercantili – decide di prendere la situazione di petto e, dopo estenuanti trattative con le notoriamente poco malleabili autorità egiziane, finalmente, dopo quattro anni di isolamento forzato, Mohammed Aisha ha potuto lasciare la nave, sostituito da un delegato dell’associazione di cui sopra in qualità di responsabile del natante, in attesa che la situazione trovi una definitiva soluzione che, date le ormai fatiscienti condizioni della nave, sembra non poter essere altra che la rottamazione della stessa.

Purtroppo la vicenda di Mohammed Aisha, benchè gravata dalla drammaticità della solitudine cui era costretto l’ufficiale, non è nè rara nè di facile soluzione. La burocrazia del diritto navale internazionale, in situazioni simili, sembra ormai essersi arenata come le navi stesse e, ad oggi, sono almeno 250 le imbarcazioni abbandonate da mesi in qualche porto del globo con equipaggio a bordo, impossibilitate a riprendere il mare o per cavilli burocratici, o per incomprensioni tra governi o per mancanza dei fondi necessari a farle ripartire.

Recentemente, anche navi italiane hanno subito un medesimo destino. Lo scorso anno ha fatto clamore le vicende della nave MBA Giovanni, carica di carbone proveniente dall’Australia e bloccata al largo della Cina poichè, causa Covid, le autorità di Pechino hanno impedito sia lo sbarco del carico sia il cambio dell’equipaggio. Solo a febbraio di quest’anno, dopo oltre sei mesi dal blocco, i sei italiani a bordo della nave sono stati autorizzati a tornare in Italia.

Foto di Mohammed Hijaz da Pixabay

Vicende come queste, periodicamente, fanno tornare sotto la lente di ingrandimento dei media le condizioni di lavoro dei marinai. E’ vero che il loro è uno dei lavori più avventurosi e, per tanti versi, gratificanti che ci possano essere, nonostante le tante insidie notoriamente proprie della navigazione. Ma è altrettanto vero che troppo spesso, a causa della cecità della burocrazia e dell’ottusagine dei governi, interi equipaggi si ritrovino, loro malgrado, ad essere di fatto prigionieri a bordo della loro nave a causa di motivazioni del tutto fortuite dove raramente l’equipaggio è direttamente responsabile e a cui, comunque, difficilmente potrebbe porre rimedio, a maggior ragione se impossibilitato a rimettere piede a terra. E’ auspicabile, quindi, che le autorità internazionali, in uno dei loro consueti, costosi e magniloquenti simposi, si decida finalmente a trovare una via condivisa per snellire le pratiche di rimpatrio e cambio di equipaggio in situazioni come quella accorsa a Mohammed Aisha o alla nostra nave MBA Giovanni.

 

 

Di leultime.info

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